“Fiori e opere di bene”, un breve paragrafo in anteprima da “Le cose sbagliate”

orchideeIl lavoro di scrittura e di ideazione del mio nuovo romanzo dal titolo “Le cose sbagliate”, prosegue nel caldo dell’estate e mi piace, in modo estemporaneo, parlarne e anche condividere dei piccoli frammenti di una storia che non avrebbe senso raccontare adesso tutta in una volta.

Su Pinterest, chiunque ne abbia voglia, potrà trovare dei piccoli flash corredati da immagini più o meno esplicative di diversi momenti del racconto e dei suoi personaggi. Basta visitare l’apposito board:

Le cose sbagliate…romanzo in corso

Ma oggi, qui di seguito, propongo anche un intero breve paragrafo di “Le cose sbagliate”. Il titolo del paragrafo è “Fiori e opere di bene”. Lo dico subito, a scanso equivoci, non pensate di poter aver chiaro cosa racconta l’intera narrazione dalla lettura di questo solo paragrafo. La protagonista in questo tratto che lancio in anteprima è Elena, una donna travolta, suo malgrado, da un insuccesso professionale di quelli duraturi.

P.S. il paragrafo che segue, giova ricordarlo, è tutt’ora in fase di editing, quindi abbiate pietà per refusi e erroracci vari e buona lettura dal buco della serratura che vi lascio aperto.

“Orchidee in ogni dove. Sul tavolo della cucina, nell’angolo della cabina armadio, sul davanzale della finestra del bagno con sauna, accanto alla porta d’ingresso, nel suo studio, sopra la grande credenza in stile ottocento, nella fioriera di cristallo posizionata in bella mostra al centro della sala.

Per lo più erano orchidee bianche ma non mancava qualche eccezione, come quelle tendenti ad un rosso scuro, appartenenti alla famiglia delle Ascocentrum, orchidee epifite originarie di posti lontani come l’India e il Nepal, con foglie lucide e spesse. Se fosse riuscita a dedicarsi a loro con costanza e attenzione, alla fine della primavera questa varietà specifica avrebbe prodotto un fusto eretto sul quale sarebbero scoppiati in vita fiorellini di colore rosso, giallo o rosa.

C’era bisogno di esporle con cura alla luce. Le orchidee ne hanno un’esigenza primaria. Odiano le tenebre. Per questo ne aveva comprate così tante, disseminandole intorno a sé. Voleva compagnia nella ricerca. Le serviva condividere la salvezza, altrimenti era certa che si sarebbe lasciata andare, trascurandosi, chiudendo gli occhi, senza trovare il sonno.

Le orchidee le ricordavano ad ogni momento verso cosa doveva tendere e da cosa invece tenersi lontana. Il silenzio della sua casa era un essere tentacolare. Le offriva mille motivi per destabilizzarsi dai suoi intenti di rinascita. Le insinuava dubbi continui, le rimandava l’eco delle sue azioni sbagliate, ma non è che avesse molta altra scelta. Al museo la trattavano come un’appestata e le era stato fatto intendere dai suoi capi che sarebbe stato meglio mettersi in aspettativa per un po’, almeno fin tanto che l’onda lunga del fallimento non si fosse persa nel bacino acquoso della memoria. Lei non intendeva abdicare, ma non aveva armi abbastanza affilate per fronteggiare l’indifferenza cronica che i suoi colleghi facevano a gara a mostrarle. Colpivano facile, colpivano duro e senza sforzo. Lo sapeva che la colpa era sua. Si era immolata come vittima sacrificale sin dall’inizio della storia. Voleva mostrare di essere un fascio di nervi tesi, uniti, saldi, instancabili.

Il suo era stato quasi un meccanismo inconscio per alzare la sua soglia di sopportazione degli altri. Aveva voluto rappresentare la consistenza delle proprie scelte e delle proprie opinioni in ogni momento di quell’interminabile processo di organizzazione e ribadire, con la propria presenza fisica, che tutte le responsabilità erano sue. Per anni aveva sperato di essere investita, appesantita dalle responsabilità, dai crucci, dai problemi. Si era immaginata che non fosse importante risolverli ma averli per sentirsi indispensabile per gli altri, per chi lavorava con lei.

Aveva iniziato così ad accumularli oltre il limite del buon senso, come amava dire suo marito. Il buon senso era l’apice della sensibilità emotiva di suo marito. Non una semplice linea di demarcazione da non oltrepassare, ma un vero e proprio traguardo da raggiungere. Ne ribadiva l’utilità, i vantaggi, le possibilità intrinseche e addirittura i piaceri.

Più passavano gli anni e più le sembrava chiaro e inconfutabile che suo marito le avesse chiesto di sposarlo per buon senso e non per amore, materia molto più indefinibile, fluida, a tratti melmosa e a tratti inconsistente. Fatto sta che adesso si trovava mille miglia lontana sia dall’amore che dal buon senso. L’essersi persa per sentieri introvabili dall’amore non poteva essere solo stato causato da quella mostra andata male. Era colpa delle cose che mancavano. Le cose che ti mancano sono pesanti eppure non ci sono ed è quel non esserci che le rende indigeste. Come se restasse un posto vuoto a tavola dopo che hai già apparecchiato e non ti capaciti del perché o di chi è che manca e non si è presentato al tuo invito. Ti viene da far finta di nulla ma non ci riesci così facilmente e allora ti ci metti d’impegno. Non basta, continui a ripensarci, a guardare nel vuoto e a cercare quello che manca. Finisce che non lo trovi, non lo puoi trovare. Quello che manca è già perso.

La cosa oggettivamente sbagliata e da non fare in questo caso è supporre, perché solo di supposizione si può trattare, che ciò che manchi sia più prezioso di ciò che c’è.

Un deprezzamento del valore di ciò che si ha, di quello che siamo riusciti a ottenere dalla vita, a favore di un presunto piacere che non abbiamo provato e che non proveremo. Un piacere mancante può valere più di tutto quello che è presente. Il buon senso suggerirebbe di no. Il buon senso. Ritorna presente, fin troppo, per assuefare qualunque palato e far smarrire la capacità di avvertire le differenze, le sfumature, gli scarti anche minimi.

Non c’è da meravigliarsi che, per venire fuori da una simile situazione di stallo, lei avesse preso la rincorsa con una feroce determinazione nel compiere, a tutto tondo, la catastrofe o la gioia.

Con questo spirito aveva assunto le redini del progetto organizzativo della mostra, decisa a far si che, in un modo o nell’altro, non vi fossero cose mancanti.

L’abbondanza non era la diretta conseguenza di questo modo di fare ma ci andava molto vicina. Per lei era importante non vi fossero vuoti e così tutto, ma proprio tutto, veniva riempito, anche le tentazioni dovevano essere tante. In una di queste le era capitato di finirci dentro a piè pari, ma sempre per lo stesso meccanismo contorto e a suo modo funzionante di filosofeggiare sul senso da dare alla propria vita lì, in quel momento, senza possibilità di posposizione, una volta ripresasi dalla tarantola del desiderio, ne aveva apprezzato il disfacimento, trovandolo il risultato di ciò che produce la nostra volontà quando la si lascia agire senza il contrasto del buon senso.

Lui, l’uomo al quale aveva affidato il suo riscatto dal piattume, era di sicuro quanto di meno logico e razionale proponesse il panorama delle sue conoscenze lavorative. Sceglierlo era già stato un atto di chiarezza su cosa intendeva fare e sul come. Lui era fuori dai grandi giri, era risaputa la sua genialità e purtroppo anche la sua inconcludenza. All’atto pratico era inefficace, inutilizzabile.

Non aveva sottovalutato questi aspetti, anzi era proprio da lì che era partita per prendere una decisione ed una decisione, per essere veramente tale, non poteva evitare l’azzardo, altrimenti diventava una scelta scontata, già scritta.

Il nome di lui, prima d’allora, non era mai comparso scritto sui grandi manifesti colorati e pensati dai creativi. Al massimo era comparso su qualche foglio A3 ingrigito dalla macchina fotocopiatrice ed attaccato con nastro adesivo e puntine nelle bacheche dei pub e nei tunnel della metropolitana.

Lo splendore della scommessa già persa in partenza si era riflesso sul suo sorriso donando un’inconsueta luminescenza al suo viso nel momento stesso in cui aveva fatto presente ai suoi capi che avrebbe affidato a lui il destino della mostra e del suo successo lavorativo.

Si era leggermente insospettita nel constatare che i suoi capi non avevano nulla in contrario rispetto alla sua scelta. Aveva pensato di spiazzarli proponendo quel nome e invece sembrava non si aspettassero nulla di diverso da lei.

Mostrarono subito una benevola accondiscendenza verso le sue scelte e ribadirono, con ancora più insistenza, che lei e solo lei aveva carta bianca su tutta la linea. Le era venuto il sospetto che fosse un piano ben ordito per metterla alle strette e renderle evidente, a fine operazione, i propri limiti.

Si pentì però subito di averlo pensato perché lo classificò come un impulso d’insicurezza e paranoia personale verso gli altri.

In un suicidio, un atto così personale nell’ideazione e nel gesto, c’è l’illusione di essere totalmente soli, incubati in un amplesso catartico che ci libererà dalla proiezione del nostro essere così come il mondo circostante lo ha elaborato fino a quel momento.

Non ci si pone altri problemi se non quelli pratici e materiali, logistici, per portare al termine la disconnessione temporale con il creato. Tutto ciò è una mistificazione e lei adesso che si è suicidata professionalmente potrebbe spiegare quanta presunzione ci sia in un tale concetto di onnipotenza personale. Lei adesso si che sarebbe l’ideale dispensatrice di saggezza a buon mercato, se solo qualcuno le rivolgesse ancora la parola e le chiedesse come sono andate le cose.

Il suicidio è un omicidio che ha i suoi mandanti e in te solo l’esecutore pratico. Pianificano tutto gli altri, ti lasciano credere anche che sei l’unico responsabile e l’unico in grado di assumersi un carico così ingombrante, ma intanto non ti perdono d’occhio e se ti vedono cambiare le coordinate e tentennare lungo la via maestra, ti risistemano e ti incitano a proseguire. Solo quando tutto è compiuto, quando ti sei eliminato evitandogli di sporcarsi le mani, riconoscono fino in fondo quello che tu eri per loro. Un gioco di strategia con il quale affinare le armi in attesa di nemici migliori.

Uno degli artisti giapponesi scelti per esporre al museo, subito dopo la conferenza stampa di presentazione, sorseggiando con lei una bevanda colorata di verde, le raccontò che il giorno che gli aerei americani avevano sorvolato Hiroshima per sganciare l’atomica, la contraerea giapponese, pur avvistando i bombardieri nemici, non si era degnata di provare a mandarli giù. Dopo i violenti bombardamenti già subiti in quel periodo, tre soli aerei non valevano la pena di uno spreco di munizioni.

Non tentarono di fermarli, accettarono la sorte così come arrivava, convinti che fosse simile a quello che già avevano passato in precedenza. Non si opposero per ragioni di buon senso. Il buon senso può essere letale. Ma anche sottovalutare l’impatto che il dolore e un fallimento annunciato possono avere sulla nostra stabilità emotiva è un modo rapido per radere al suolo quel che contiamo di essere capaci di riuscire a conservare in ogni caso.

Ora, per lei la tempistica dei riconoscimenti al merito che la vita potrà mettere ancora in campo sarà molto diversa da quella che lei immaginava. Per dilatare in modo illusorio il finale della storia, lei telefonava a lui tutti i giorni. I modi per farsi male sono sempre a portata di mano. Entrambi esiliati, ognuno nel proprio eremo casalingo, con l’unica differenza di essere l’una la moglie in attesa del ritorno a casa del marito carico di buon senso, e l’altro il marito che conta i secondi che gli restano prima che la moglie, capace e determinata, riempia la casa con tutto il suo potere di essere umano socialmente consacrato.

Differenze minime, molte di più le similitudini, peccato che due vite sconfitte se sommate non riescano a farne una vincente.”

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